di Roberto Polidori
“Sono convinto che la nostra gente vuole aria pulita. Non c’è alcun altra benedetta cosa in grado di migliorare definitivamente l’aspetto, la salute, l’orgoglio e lo spirito di una città”.
David L. Lawrence, Sindaco di Pittsburgh nel suo discorso di insediamento del 1946.
Ora che “il problema Taranto”, con mia grande soddisfazione, comincia ad occupare i palcoscenici televisivi nazionali – speriamo presto in prima serata – è il caso di capire se è possibile preconizzare un’evoluzione futura della nostra bella città sul modello della ex “Smoky City” Pittsburgh, omologa “città dell’acciaio” americana riconvertita a centro di fama mondiale nell’ambito della cura della salute e della ricerca santaria, di nanotecnologie e di robotica.
Una volta acclarato che a Taranto si muore più velocemente e peggio rispetto ad altre realtà (su questo, mi sembra, tutti sono d’accordo tranne gli epidemiologi ed i legali dell’ILVA), credo che tutti i “candidati sindaco” della città abbiano spostato il livello dell’analisi e dei programmi rivolgendosi al “futuro economico” dei residenti. Mi chiedo se sia possibile intavolare un dibattito sereno nel “merito” delle questioni per cercare di capire se la volontà espressa da Sergio Bonelli circa una possibile riconversione industriale – “A Pittsburgh lo hanno fatto, perché a Taranto no?” – sia facilmente declinabile nella nostra martoriata città. Sulla base dei documenti esaminati, sono sempre più convinto la “questione Taranto” sia un bubbone di dimensioni almeno nazionali e che sia risolvibile non solo con un massiccio intervento pubblico (di questi tempi?) che implicherebbe una conversione ad U nella politica economica di questo governo (come investire, in quali settori e con quali tempistiche), ma anche e soprattutto con un cambiamento nelle modalità di scelta delle priorità di finanziamento delle reti di conoscenza e nelle modalità di erogazione dell’istruzione nel paese.
Una “presa di coscienza” bicentenaria
Pittsburgh è il simbolo della rivoluzione industriale in America: una città nata in prossimità della confluenza di tre fiumi in grado di collegare i Grandi Laghi all’Oceano Atlantico, a pochissima distanza dal giacimento di “carbone bituminoso” più imponente degli Stati Uniti, il Mount Washington, soprannominato “Coal Hill”, già noto nel 1760. Nel 1850 l’inquinamento era già un problema chiaro a tutti in città, tanto che il grande scrittore Charles Dickens la definì “l’inferno a cielo aperto”. Fu proprio David Lawrence, il sindaco ambientalista, ad esigere l’applicazione di datate normative anti-inquinamento (risalenti alla fine dell’ottocento) nel 1946. Il primo Clean Air Act (Legge dell’Aria Pulita), approvato negli States per le città di Pittsburgh e Gary, è del 1963, dopo altri diciassette anni di lotta ambientalista e nonostante la certificata maggiore incidenza – + 400% rispetto alla media nazionale – di talune tipologie di malattie respiratorie. Il “caso Pittsburgh” era allora conosciuto a livello nazionale grazie ad un film, oggi visibile in rete, “The City”, che mostrava il livello di degrado ambientale della città già nel 1939. Insomma, la “storia ambientale” di Pittsburgh è bicentenaria ed arcinota, come la storia dei movimenti ambientalisti che hanno combattuto per avere aria pulita, con un sindaco dichiaratamente ambientalista fin dagli anni quaranta. Nell’ultimo Clean Air Act del 2011 collaborano fianco a fianco associazioni ambientaliste e sindacati metalmeccanici locali; mi piace citare l’associazione Donne per la l’Ambiente Salubre ed il sindacato metalmeccanico United Workers. Nonostante ciò, la riconversione industriale è avvenuta in tempi relativamente recenti, partendo dagli anni ottanta, ed in modo per niente indolore per le classi più deboli, come argomenterò sotto. Si tratta di una riconversione che, comunque, ha radici profonde e promana da direttrici ben precise e ben finanziate.
Un’evoluzione sociale e culturale generata dalla crisi
La storia insegna che le crisi economiche velocizzano mutamenti nelle relazioni sindacali e sociali e nei rapporti di forza: resta da capire se le modifiche siamo migliorative o peggiorative nel loro complesso e, all’interno delle diverse categorie sociali (presenti e ben visibili oggi come non mai), chi ci guadagna e chi ci perde. Fatto salvo il famoso calcolo economico delle “esternalità negative” – un esercizio matematico che neanche gli economisti americani sono riusciti a tradurre in giusti indennizzi in occasione di clamorose Class Action da inquinamento – la “riconversione” di Pittsburgh, iniziata negli anni settanta (durante la prima crisi energetica) e continuata negli anni ottanta, ha ridisegnato il volto della città ovviamente in meglio.
Alcuni esempi: Pittsburgh ha avuto il triste primato di città più inquinata al Mondo nel periodo dei trenta impianti siderurgici operanti nell’abitato. Negli ultimi anni Pittsburgh è sempre presente nelle classifiche delle “città più vivibili al mondo” stilate da autorevoli riviste specializzate (Forbes, Economist, Places Rated Almanac). Sebbene vi siano ancora circa 300 imprese che operano in ambito siderurgico (ed impiegano 4.600 operai), la città si caratterizza per la presenza di oltre 1.600 aziende tecnologiche, tra le quali Google, ed altri colossi dell’elettronica (Westinghouse) e della finanza (PNC Financial Services, Bank of New York Mellon).
Ciò che stupisce maggiormente è la clamorosa diversificazione delle attività ad alto valore aggiunto che Pittsburgh ospita: fondazioni mediche specializzate nella ricerca (finanziata) di alto profilo – Pittsburgh è il primo centro medico al mondo per lo studio delle malattie del cuore – robotica, servizi finanziari, turismo, “industria delle conoscenza”. E’ il motivo per cui Pittsburgh, almeno fino al 2010, è riuscita a ripondere alla crisi che morde l’economia mondiale dal 2008 meglio di altre aree degli Stati Uniti; ed è anche il motivo per cui i locali mezzi di stampa enfatizzano con orgoglio partigiano le possibilità lavorative e le paghe medie di settore.
La tarantina Adele Di Fabbio ha dimostrato come un’economia locale sia più resistente (“resilienza economica”) alle crisi se sul territorio insistono attività di diverso tipo: la diversificazione di attività non correlate permette un veloce adeguamento ad una crisi ed una migliore “predisposizione alla ripresa”. Nel caso di colossi industriali che monopolizzano la domanda di lavoro (si chiama “monopsonio” in economia), è chiaro che ad una crisi grave, come la crisi dell’acciaio nella Pittsburgh degli anni ottanta, non c’è via d’uscita se non ci sono alternative produttive e, soprattutto, se non c’è la giusta predisposizione alla crezione di alternative. La crisi attuale è molto grave ed anche Pittsburgh perde occupazione ma la città, stando ai dati di 3 giorni fa, sembra rispondere meglio della media delle altre città americane.
La carta vincente della metamorfosi da inferno a paradiso: l’istruzione
Le carte vincenti della metamorfosi di Pittsburgh sono essenzialmente quattro: 1) un lunghissimo periodo di incubazione e maturazione della coscienza ambientalista, 2) lo sviluppo di poli universitari di eccellenza planetaria, 3) l’investimento “in loco” dei guadagni dell’attività siderurgica in attività ad alto valore aggiunto da parte di alcuni magnati dell’acciaio; 4) la crisi dell’acciaio negli anni ottanta.
Il secondo ed il terzo punto sono le due facce di una stessa medaglia: la tabella sottostante chiarisce il concetto.
Rank | Employer | Number of Pittsburgh employees | Product(s) |
1 | University of Pittsburgh Medical Center | 47,000 | Health care |
2 | University of Pittsburgh | 11,000 | Higher education |
2 | West Penn Allegheny Health System | 11,000 | Health care |
4 | Giant Eagle | 10,000 | Supermarkets |
5 | PNC Financial Services | 8,000 | Financial services |
6 | Bank of New York Mellon Corporation | 6,900 | Financial services |
7 | FedEx Corporation | 5,000 | Transportation |
7 | Highmark | 5,000 | Health insurance |
9 | U.S. Steel | 4,900 | Steel manufacturing |
10 | Carnegie Mellon University | 4,700 | Higher education |
I dati soprastanti provengono dal Boreau of Labour ed attestano che nella Contea di Allegheny, che ospita la città di Pittsburgh, circa 75.000 persone lavorano direttamente nel campo dell’educazione superiore e della cura della salute. Ben 47.000 persone lavorano nell’Università di Pittsburgh Medical Center, nell’Università Statale di Pittsburgh e nella Canargie Mellon University.
La Canargie Mellon University è una costosissima ed esclusiva università privata che comprende 7 College e un Campus sterminato: fu fondata da Andrew Canargie ed dai fratelli Mellon ed è un’università all’avanguardia per ciò che concerne la ricerca teconologica e robotica (tanto da meritare la sovvenzione a fondo perduto per 20 milioni di dollari da Bill Gates). Andrew Canargie è stato “il” magnate dell’acciaio mondiale e naturalmente investì e si arricchì a Pittsburgh, prima di vendere le sue acciaierie (che diventarono poi la mitica U.S. Steal) per dedicarsi all’educazione ed alla filantropia a partire dal 1901. I fratelli Mellon erano i più potenti banchieri del mondo (e l’attuale banca Bank of New York Mallon è ancora un colosso finanziario ed ha sede in Pittsburgh), finanziarono le imprese siderurgiche di Canargie e decisero poi di finanziare anche un’università privata. I Mellon dichiararono un patrimonio certificato di 300 milioni di dollari nel 1932, paragonabili a svariate decine di miliardi di Euro attuali. Erano gli uomini più ricchi del mondo.
Il Centro Medico dell’Università di Pittsburgh è un’imporesa sanitaria no-profit (!!!) fondata nel 1893, muove 9 miliardi di dollari di fatturato annuo, conta 4.200 posti letto per 20 ospedali ed è strettamente connessa all’Università di Pittsburgh.
L’Università Statale di Pittsburgh (http://en.wikipedia.org/wiki/University_of_Pittsburgh), fondata nel 1.787, è una tra le prime 20 Università Statali a gestione privata più importanti al Mondo: occupa più di 10.000 persone e sforna i medici che andranno a lavorare nel Centro Medico.
E’ chiaro che la crisi dell’acciaio degli anni ottanta non ha colto Pittsburgh impreparata alla riconversione.
Le note dolenti ed un pargone con Taranto
Nonostante i grandi finanziamenti a disposizione, nonostante la possibilità di programmare con calma e mezzi un futuro diverso, nonostante la presenza di una classe imprenditoriale e politica predisposta alla riconversione ambientalista, la crisi degli anni ottanta ha lasciato un segno che è nei numeri: Pittsburgh è oggi una bellissima città che conta 304.000 abitanti circa, contro i 676.000 del 1950 ed i 434.000 del 1980, quando la paga oraria di un operaio siderurgico della città era circa 70 dollari più alta della paga media del dipendente americano (370 dollari ai prezzi del 1980).
I dati indicano che, in un lungo periodo di tempo durante il quale la popolazione statunitense è in media aumentata, la popolazione di Pittsburgh si è ridotta drasticamente, il reddito medio pro-capite per abitante possessore di casa è rimasto sotto la media nazionale (e rimane così anche oggi soprattutto a Pittsburgh http://www.city-data.com/city/Pittsburgh-Pennsylvania.html), il valore degli immobili si è ridotto fino a tre-quattro anni fa mentre ultimamente sta aumentando (con una dinamica opposta rispetto al mercato americano). Solo ultimamente, dopo una fase di assestamento da “monocultura economica dell’acciaio” durata 50 anni, il tasso di decrescita demografica si è quasi arrestato.
E’ chiaro che la perdita di posti di lavoro nel settore siderurgico non è ancora stata riassorbita (una stima parla di 153.000 posti perduti di cui solo 46.000 posti tra il 1980 ed il 1984), mentre è altrettanto chiaro che la qualità dei posti attuali è molto migliore ma non la retribuzione oraria. Quest’ultimo fenomeno, però, è legato alla perdita complessiva di potere d’acquisto di ogni forma di lavoro dipendente dappertutto.
L’economia di Pittsburgh poi è molto legata alle politiche economiche pubbliche di sostegno alla salute (Madicare): il 17% circa della popolazione residente è over-65 e decide di stabilirsi qui perché possiede una polizza sanitaria o una copertura governativa. Ora che la crisi morde e che l’amministrazione locale e quella statale devono tagliare i fondi pubblici, ci si chiede se l’industria della salute potrà sosteneri in futuro con i soli mezzi privati.
Fatte le debite proporzioni tra Pittsburgh e la nostra città, Taranto non si è dotata di background culturale che abbia preparato il terreno per un passaggio meno drammatico dalla siderurgia all’industria della tutela della salute: ci sono in ballo 210 milioni di euro per un polo sanitario pubblico (su questo Bonelli è stato magnificamente chiaro) che hanno bisogno di un “contenuto” che manca. Non ci si riferisce tanto alla professionalità dei medici (ma potremmo parlare anche di ingegneri aereospaziali), quanto alla possibilità di generare in loco una “industria universitaria” in grado di promuovere formazione continua. C’è un grosso problema: in Italia, insieme con gli sprechi, stanno tagliando anche i soldi per garantire i livelli minimi di assitenza sanitaria garantiti dalla Costituzione.
Non parliamo poi di Fondazioni private per la formazione tecnologica: qualcuno riesce ad immaginarsi un Emilio Riva che, indossati i panni di un Canargie, dopo aver venduto l’ILVA, decide di smetterla di far imbiancare chiese e far ripulire cimiteri per investire in una costosissima Università privata con campus all’americana per far qualcosa di diverso dall’acciaio? Più semplice che chiuda la baracca e se ne vada, visto che non ha lasciato neanche l’indotto in loco. E non parliamo neanche dell’imprenditoria locale: il più fulgido esempio tarantino non può pagare gli stipendi ai propri calciatori, figurarsi tirare fuori qualche miliardo di euro.
Esiste un interrogativo più grande e più importante: le politiche economiche italiane non contemplano attualmente proposte di intervento statale diretto nella riconversione economica e Taranto avrebbe bisogno di circa 3 Mld di euro per la sola bonifica del terreno contaminato. In una parola: non ci vogliono mettere neanche un euro. Si limitano a predisporre gli strumenti per rendere più flessibile il mondo del lavoro sperando che la classe imprenditoriale privata anche estera investa: in questo processo si potrebbe verificare una forte riduzione, anche nominale, dei salari. Del resto se qualche lettore sta seguendo la querrelle sui nuovi ammortizzatori sociali in tempo di crisi, capisce che il nostro governo non è neanche disposto a stanziare 2 miserrimi miliardi annui per il nuovo penoso sistema di welfare: deve incassare l’ok dell’Europa – sotto le cui regole contabili, ricordo a tutti, noi viviamo.
In questo senso gli Stati Uniti si muovono in modo diametralmente opposto: hanno mantenuto naturalmente la propria autonomia fiscale e proteggono le proprie industrie.
Quanto alla formazione continua ed alla possibilità di accesso all’istruzione di qualità per tutti poi, sarebbe utile capire come fa uno Stato di tecnici laureati alla Bocconi ad interessarsi di finanzamento di Università pubbliche di qualità – non parliamo poi di Università eccezionali come la Pitt University: il Fondo creato ad hoc è stato ridotto del 90% del suo ammontare, e non ha neanche i mezzi per pagare le Borse di Studio già vinte ed assegnate a studenti meritevoli senza mezzi. Chi potrà permettersi, con le attuali rette, lo studio di qualità nelle future università istituende sul territorio? Ricordo che l’Italia è il paese al secondo posto nel mondo con minore “mobilità sociale di classe tra genitori e figli” (dati OCSE): in questa classifica siamo sopravanzati dagli Stati uniti, appunto, dove gli studenti senza mezzi intestano debiti medi per gli studi sostenuti pari a 24.000 dollari pro-capite ancora prima di iniziare a lavorare.
Un qualsiasi amministratore della città dovrà fare i conti con queste realtà.